Lei, Riccardo Dri, è un autore prolifico e uno studioso poliedrico.
Quali sono i settori di sua competenza sui quali ha lavorato più a lungo?
Io sono nato come cultore della filosofia (eviterei di dire “filosofo” perché dopo Platone nessuno può più dire: “Sono un filosofo”).
Dopo la laurea mi sono iscritto ad una società psicoanalitica quasi per specializzarmi. Non è stato inutile perché numerosi volumi sono usciti con il sottotitolo di “Saggio per una interpretazione psicoanalitica” (Omero, Le Baccanti di Euripide, Gli inconsci collettivi, Il Vangelo di Matteo, ecc.). Quindi, più che periodi statisticamente preponderanti tra filosofia o psicoanalisi, io parlerei di periodi in cui l’interesse di quel momento aveva bisogno di attrezzi di lavoro afferenti all’uno o all’altro campo. D’altra parte, non ho faticato molto a percorrere queste strade, perché non c’è territorio e tempo nella vita in cui questi saperi non siano necessari. È vero, mi interesso di tutto, con il rischio di essere dispersivo. Tuttavia i volumi da me redatti tanto dispersivi non sono, anzi mi paiono densi e concentrati.
Temi particolarmente impegnativi… proposti a un lettore dal palato fine, dal pensiero meditativo e dagli interessi quantomeno formativi. Si ritiene, in questo senso, un divulgatore oppure trattasi di una vera e propria passione per la ricerca scientifica e filosofica?
Senza passione per la ricerca è difficile essere divulgatori. Questo è il motore di ogni cosa Significa che la testa si apre solo se prima si apre il cuore. E il cuore si apre solo se sedotto per via erotica”. (AA.VV., Il monologo, in Generazione Zeta, 3-4-2017). E ancora Nietzsche: “i grandi problemi esigono tutti il grande amore” (F. Nietzsche, La Gaia Scienza, § 345.), e ancora Hölderlin: “passione e amore sono le ali delle grandi azioni” (F. Hölderlin, Sämtliche Werke, München, 1913, Bd. VI, p. 232; ed.it. 1967, p. 71). E ancora Paolo di Tarso: Non intratur in veritate nisi per charitatem.
L’importante è non aspettarsi alcun grande trionfo (il mito della Caverna insegna tuttora) e non essere mai mossi per il riconoscimento. Tuttavia insistere. Forse tutta la nostra vita non è che questa insistenza, perché la vita di ciascuno non è, come spesso sembra, ininfluente ai fini della divulgazione di un modo di vedere le cose che potrebbe aprire squarci di prospettive inesplorate, addirittura neppure sperate. Siamo tutti responsabili, a nostra insaputa, perché il cervello “gemma” in millesimi di secondo le memorie che noi imprimiamo attraverso le informazioni che riceviamo. Quindi se vogliamo capire che cosa fa la vita a scuola su uno studente basta che facciamo un calcolo, cioè millesimi di secondo per centesimi di secondo per decimi di secondo per secondi, per minuti, per ore, per giorni, per mesi e infine per anni che un bambino sta a scuola. Si ottiene un numero che tende all’infinito. Questo numero misura quello che ciascuno degli adulti che incontrerà determina nel suo connettoma, la trasformazione del suo Sé. Un potere immenso che, fuor di metafora, potremmo chiamare manipolazione cerebrale. Diversamente non si potrebbe parlare di neuroplasticità e di zona di sviluppo prossimale (A. Ceriani, V. Nigro, [2006], p. 40, AA.VV., [2016], p. 315.)
Detto questo mi pare che la divulgazione possa comprendersi nel progetto complessivo dell’educazione. A chi spetta? La scuola dice “alle famiglie”. Le famiglie dicono “alla scuola”. Che alla fine significa “a nessuno”. La divulgazione può inserirsi in questi “vuoti”. Ma le letture DEVONO essere guidate. Non si può offrire una lettura qualsiasi. Innanzitutto: l’insegnamento, proprio perché esercitato con quei canoni “erotici” di cui parlavo sopra, deve tener conto che non si può trasmettere conoscenza tramite gli sbadigli. I miei libri cercano di risvegliare interessi, perché l’interesse non nasce dal nulla, ma dal coinvolgimento della sfera emotiva (che bisogna innanzitutto conoscere), la volontà non esiste al di fuori dell’interesse, che l’interesse non esiste separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra adulto e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione.
Pertanto, sì, i miei libri tentano di dare questa configurazione culturale alla relazione con l’ipotetico lettore, magari per fare un breve tratto di strada insieme e scoprire che, alzando la testa, il panorama intanto è cambiato completamente.
E cambiato è anche il panorama degli approcci terapeutici della psicologia. Dal momento che lei si è occupato di psicoanalisi, saprebbe illustrarci la differenza tra la psicoterapia “classica” e la psicoanalisi, tenuto conto, ovviamente, che la psicoanalisi, almeno per come la pensava Freud, non è rivolta soltanto a pazienti con disturbi o disagi psichici ma pure ai “sani”. Inoltre, come giudica il binomio malattia/salute.
In effetti, la psicologia classica interviene quando emerge una situazione di disagio obiettiva, e per fortuna che ci sono strategie mirate per affrontare sofferenze del genere, che oggi sono diffusissime. La psicoanalisi è un’altra cosa, non si occupa solo di terapie, anzi è innanzitutto interpretazione della realtà in cui vive l’uomo, anche quando sta benissimo. Dunque a che serve se non c’è richiesta di guarigione? La psicoanalisi prende le cose molto alla lontana, per avvicinarsi con una presa molto differente. Intanto: In effetti la psicologia classica interviene quando emerge una situazione di disagio obiettiva, e per fortuna che ci sono strategie mirate per affrontare sofferenze del genere, che oggi sono diffusissime. La psicoanalisi è un’altra cosa, non si occupa solo di terapie, anzi è innanzitutto interpretazione della realtà in cui vive l’uomo, anche quando sta benissimo. Dunque a che serve se non c’è richiesta di guarigione? La psicoanalisi prende le cose molto alla lontana, per avvicinarsi con una presa molto differente. Intanto: È proprio già Freud che avverte che è Platone il primo psicoanalista ante-litteram. Infatti, non si è occupato che di anima. E che la psicoanalisi ha più a che fare con la letteratura che con la psicoterapia: “Talvolta mi sembra che la nostra anima assomigli a un libro” (PLATONE, Filebo, 38e). Così precisa più avanti, “la psicoanalisi è quella parte della psicologia che si dedica alla conoscenza dell’anima”. Dunque, la psicoanalisi aiuta in quanto riesce a trasformare la nostra vita in un racconto, proprio come un libro. Ma non è la nostra vita il soggetto, ma lo è il racconto, perché è il racconto che offre un senso al soggetto. Freud scrive che “la psicoanalisi non ha creato nulla di originale” (Freud, 1921, p. 281), e difatti aveva alle spalle Platone, il più grande cantastorie di racconti (miti), la cui spinta propulsiva non si è mai spenta. È vero dunque non solo che la psicoanalisi non ha creato nulla di originale, ma anche che “i poeti e i filosofi hanno scoperto l’inconscio prima di me” (Freud and literature, 1940). Ricondotta (qualcuno dice “ridotta”) la psicoanalisi a letteratura, e riconosciuta l’anima umana come un libro (chiuso, ma da aprire) oggi la psicoanalisi seria ha una sola certezza: mai separare l’uomo dal senso della sua vita.
Sul binomio tormentato tra malattia e salute rinvio al mio volume “Medicina”, per la sua completezza e il suo peso filosofico.
Parliamo della scrittura. In particolare della scrittura espressiva e introspettiva. Come la definirebbe? Che funzione/ruolo potrebbe avere nel mondo di oggi, tutto incentrato sul problem solving e ben poco sulla riflessione interiore e, quindi, per riprendere un concetto di prima, sul pensiero meditativo?
Rischiamo di parlare degli effetti e non della causa. Se il nostro tempo è scandito dal “problem solving”, è anche perché c’è un’assenza che, stante la sua gradualità, non è stata percepita nella sua portata. La scrittura è sempre espressiva e introspettiva, ma oggi vi si dà un rilievo specifico perché manca ciò che promuove la scrittura, cioè il bisogno di comunicare. Stante l’isostenia dei valori che stanno alle spalle di qualsiasi scrittura, oggi sappiamo, o abbiamo la percezione, che scriviamo per nessuno, ovvero solo per noi stessi. Abbiamo perduto i punti cardinali. È questo che sta alle spalle. “Manca lo scopo – scriveva Nietzsche – manca il perché. I valori supremi si sono svalutati”. Non c’è riflessione interiore se non a partire da ciò che la promuove e, stante l’analfabetismo contemporaneo (sottotitolo del mio “Se io avrei”), non abbiamo più molto da dire. La scrittura è espressione dell’anima, come scrive Aristotele nel De Interpretatione, e Heidegger ci dice che alle nostre spalle lavorano due fardelli, il pensiero calcolante e il pensiero meditante. È quest’ultimo che è andato perduto, a favore di scienza e tecnica. Il mondo oggi è espressione diretta delle metafore di base che lo sostengono: “dominerai sui pesci del mare, sugli animali che strisciano sulla terra, sugli uccelli del cielo” (dice il Genesi), e la parola chiave è proprio “dominerai”, anzi peggio, il verbo usato è un imperativo (archete = dominate). In un mondo scandito dal dominio cosa possiamo esprimere?
Può rivelarci su cosa sta lavorando attualmente?
Avevo in progetto un saggio su Kafka ma mi sono arenato a causa dei molti impegni con case editrici straniere, che tra poco saranno esauriti. Conto di ritornarci in settembre, sono davvero stressato. Grazie per l’interessamento. Ci sentiamo dopo le meritate vacanze.
Dunque si riposi, magari con qualche Dialogo giovanile di Platone sotto l’ombrellone, con una bevanda fresca.
Sarà fatto, grazie a te e a Pluriversum.